L'esperienza di «lontananza» vissuta dai soldati italiani ammassati nelle trincee della Prima Guerra Mondiale è abissalmente diversa da quella già attraversata nell'emigrazione: questa volta la loro esistenza non è più segnata dal lavoro e dalle privazioni, ma dalla violenza e dalla morte. Di qui il bisogno di comunicare, la sete di informazione, il tentativo di colmare in qualche modo la distanza, addolcire il distacco. La tiratura della stampa quotidiana aumenta di sei volte rispetto ai livelli prebellici. È la grande stagione degli «illustrati» che, con un tasso nazionale di analfabetismo ancora molto alto agli inizi del secolo, si rivelano strumenti molto efficaci: «La Domenica del Corriere» pubblica in tre anni 800 foto di guerra, l'«Illustrazione Italiana» oltre 1.800, un apparato iconografico imponente, integrato dalle celebri «tavole» di Achille Beltrame e dai primi documenti cinematografici. La guerra è proiettata a livello di massa soltanto nei suoi aspetti edificanti. I direttori dei principali giornali italiani si danno allora quasi un «codice militare» di deontologia professionale; corrispondenti di guerra, fotografi, cineoperatori sono investiti di un ruolo ufficiale, censurando e autocensurandosi, avviando la costruzione di quella che in seguito sarà l'immagine popolare della Grande Guerra