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I consumi

I consumi hanno a lungo connotato le profonde differenze di classe e di ceto, in quanto elementi esclusivi, riservati a pochi. A partire dagli anni cinquanta e sessanta del Novecento, tuttavia, in Italia si afferma una più generale vocazione consumistica: il boom industriale, un'ondata di nuovo e diffuso benessere, una trasformazione del ruolo della donna, l'irruzione della pubblicità e della televisione, tutto concorre a definire una fase di inclusione e di unificazione all'insegna del consumo. La progressiva trasformazione dei cittadini in consumatori e clienti ha contribuito a «fare gli italiani» di oggi, omologando i loro comportamenti e il loro immaginario.


 


Una Unità «materiale»


La storia degli italiani non è fatta soltanto di uomini e di donne, di libri e di quadri, di decreti e di cronache giornalistiche, ma anche di cose. La tecnica, o meglio le cose che essa produce, segnano le tappe di una storia «banale» perché fatta di quotidianità, ma non per questo meno importante, perché l'impatto delle cose, non soltanto nelle economie e nei consumi, è generale e arriva a tutti, spesso anche in maniera indiretta, spesso senza che si abbia modo di prenderne piena coscienza. E così gli oggetti, o meglio le «cose» assumono un ruolo unificante perché sono usate, consumate o anche solo ammirate e desiderate da tutti, senza distinzione geografica o sociale. Il Risorgimento in Italia per molti versi, anche se con sfumature diverse da luogo a luogo, coincide con le trasformazioni da una società agricola e artigiana a una nuova «civiltà» industriale. L'artigiano ha un rapporto diretto e personale con i propri clienti e inevitabilmente il suo raggio d'azione è limitato; l'industria invece, che delle tecniche fa un mezzo di produzione di massa, necessariamente, per una logica del tutto innata deve allargare il proprio mercato. Così, fatte queste premesse, si può affermare che è possibile da un lato narrare la storia di centocinquanta anni di Italia unita seguendo la vita delle cose, e dall'altro riconoscere che proprio le cose hanno costituito un forte elemento unificante concreto e tangibile a cui hanno contribuito parallelamente i mezzi di comunicazione di massa, dalle esposizioni industriali e dalle pubblicità illustrate sino alla radio e alla televisione per arrivare infine alla globalizzazione delle reti. Nel 1851 si celebra a Londra la «Exhibition of the Works of Industry of All Nations»: l'Italia non è presente come nazione ma nei cataloghi delle esposizioni al Crystal Palace figurano «Sardinia», «Tuscany», «Rome» e «Sicily»: Milano è una città dell'Austria. Questa per tutti sarà la «Great Exhibition», ma non lo è ancora per l'Italia. Intarsi in legno e in pietre dure, sculture in marmo e pipe di gesso, rilegature pregiate e stampe artistiche sono prodotti dove l'abilità dell'artefice si identifica in località e culture molto circoscritte. Solo i filati di seta e alcuni tessuti lasciano intuire che la rivoluzione industriale sta incominciando a rendere irreversibile i processi di trasformazione della società. I vini liquorosi della Sicilia sono da tempo ben noti agli inglesi che in quella regione hanno stabilito importanti basi commerciali. Cinque anni più tardi, sulle rive del Mar Nero i soldati piemontesi avranno modo di confrontarsi con le innovazioni dei grandi d'Europa: le ferrovie, il vapore, la fotografia, il telegrafo. La Francia ha appena avuto la sua rivincita sull'Inghilterra con la sua «Exposition Universelle» del 1855. Nel 1862 sempre a Londra si celebra la «International of 1862», che molti chiamano la «Great London Exposition»: c'è un padiglione intitolato al «Kingdom of Italy» e il commissario del nostro Paese, il senatore Giuseppe Devincenzi, convinto che l'Italia debba avviarsi su una nuova strada industriale, raccoglie materiali e idee che saranno il primo nucleo del futuro Museo Industriale Italiano di Torino. Raccontare una storia delle cose che hanno fatto gli italiani significa compiere un viaggio nella memoria collettiva, magari andando a visitare cantine e solai, dove i ricordi si sedimentano sotto la polvere e diventano scritture fatte di etichette e di targhe, di metalli arrugginiti e di lamiere corrose, di ceramiche sbeccate e di vetri opalescenti. All'inizio, come è naturale in ogni sistema vitale, si trovano le cose essenziali che riguardano l'alimentazione e la salute, ma poco a poco anche le cose più essenziali si ingentiliscono e diventano simboli di uno stato sociale, di una promozione culturale che coinvolge produttori e consumatori. Il Marsala dei palermitani Florio è già noto, soprattutto al di fuori dei confini nazionali che ancora non sono stati definiti e presto si fregerà sulle proprie etichette dei premi ricevuti. Dall'altra parte della penisola i «vermouth» Martini conquistano nuovi mercati. Ma a fianco delle bottiglie cominciano a fare capolino nei negozi delle capitali di un tempo scatole di biscotti e tavolette di cioccolato che si vestono di storie famigliari. E presto arriveranno anche i cioccolatini, l'olio di oliva, la pasta di grano duro, i biscotti. Ma non ci sono solo gli alimentari perché anche i preparati farmaceutici si vestono di unità nazionale: Carlo Erba e Giovanni Battista Schiapparelli presto trasformano le proprie farmacie in imprese industriali. In Toscana Lorenzo Manetti si associa a Henry Roberts e ai suoi successori per fondare una famosa casa di prodotti cosmetico-farmaceutici che diventa famosa per il «Boro-Talcum». E in questo primo cinquantennio dell'Italia unita anche i mezzi di comunicazione trovano nell'industria e nella produzione di massa il loro successo, complice la gomma vulcanizzata. Giovanni Battista Pirelli a Milano dapprima sviluppa la propria industria intorno ai cavi telefonici, quindi si mette a produrre pneumatici, e così può decollare l'industria delle biciclette con i Ceirano a Torino e i Bianchi a Milano. Proprio dalle officine delle biciclette presto nasceranno le automobili. Ma anche gli aerei, e il 1911 segna non solo il primo cinquantenario dell'Unità, con l'Esposizione internazionale di Roma e Torino. A fianco delle prime macchine «da scrivere» italiane prodotte da Camillo Olivetti, che le aveva conosciute in America a fianco di Galileo Ferraris, si registra la folle corsa agli armamenti. La fine della guerra non significa un completo equilibrio per gli italiani che hanno ormai imparato a spostarsi lungo la penisola. Gli anni venti, nonostante le nuvole che si addensano all'orizzonte, sono ancora pieni di speranze, il tenore della vita cresce e con esso la volontà di concedersi qualche lusso. Si frequentano i bar per prendere l'aperitivo, si acquistano e regalano ninnoli e giocattoli, si incominciano a frequentare i luoghi di villeggiatura, al mare e in montagna, si impara a sciare e a giocare a tennis. Superga, Invicta, Campari, Lenci sono nomi che si affermano in quegli anni e che oggi continuano a essere in piena vitalità. Se poi negli anni trenta le frenesie di una politica imperialistica portano il Paese sul baratro della guerra, le politiche autarchiche sono all'origine di nuove produzioni di «cose nazionali». In primis le radio che servono alla pubblicità, ma anche e soprattutto alla propaganda di regime, ma anche i nuovi tessuti sintetici come il Lanital e lo Sniafiocco. Sono gli anni in cui, in sordina nasce sulle rive del lago d'Orta la caffettiera «moka espress». Poi di nuovo una guerra. Nell'Italia bombardata e distrutta non manca la volontà di ricostruire e ancora una volta le «cose» sorprendentemente accompagnano la nuova voglia di vivere. Dalle ceneri dell'industria aeronautica Piaggio, Corradino D'Ascanio inventa lo scooter «Vespa» che diventa la prima utilitaria per la famiglia italiana, che ben presto abbandona la cucina economica a legna per fare entrare in casa il fornello a gas. Presto sarà affiancato dagli altri componenti della famiglia dei «bianchi»: frigoriferi, lavatrici, e più tardi lavastoviglie. Borghi, Zanussi e Merloni sono dinastie che si fregiano dei blasoni «Ignis», «Rex», «Ariston». Non sono i soli. Gli elettrodomestici contribuiscono alla liberazione della donna che ha più tempo per staccarsi dalle faccende di casa e per affrontare nuove autonomie e fatiche nell'indipendenza di un proprio lavoro. Anche a scuola le cose cambiano: le penne con i pennini Presbitero e Perry scompaiono per far posto alle penne stilografiche subito surclassate dalle «biro» Bic. La passata di pomodoro si compera in scatola e i gelati si acquistano confezionati, proprio come gli abiti che non si fanno più cucire (e risvoltare) dalla sarta. Le pentole a pressione e i nuovi giocattoli elettromeccanici, su modelli d'oltre oceano, fanno la fortuna di nuovi imprenditori e la gioia di tutti. 1955: alla Fiat di Torino governata da Vittorio Valletta, resa operosa da migliaia e migliaia di italiani arrivati dalle regioni più lontane, esce la Seicento, progettata dall'ingegner Dante Giacosa. È un «miracolo» non solo economico. Nei bar si ascoltano gli ultimi successi musicali nei juke-box che su licenza americana produce la Microtecnica, le case discografiche lanciano nuovi successi e il Festival di San Remo presto trova nella televisione un nuovo palcoscenico. Negli intervalli della scuola i ragazzi si scambiano le figurine, e la macchina da scrivere portatile come già era stata la macchina per cucire fa entrare nelle famiglie degli italiani una nuova idea di tecnologia: meccanica, ma ancora per poco perché alla Olivetti, che ha aperto un nuovo stabilimento a Pozzuoli, Mario Tchou e Piergiorgio Perotto stanno pensando all'elettronica. Alla Montedison Giulio Natta, cresciuto culturalmente in un Paese autarchico, studia nuovi polimeri e per essi riceve il Premio Nobel, e diventa famoso per il «Moplen» che invade le case degli italiani anche grazie alla pubblicità di Carosello con Gino Bramieri. E così, intorno alle celebrazioni del primo centenario, prima e dopo «Italia 61», si mangiano le nuove merendine della pubblicità, si spalma sul pane la Nutella, invece di burro e zucchero, si acquistano in edicola gli «Oscar» Mondadori, si indossano le maglie Benetton. E dopo gli anni del «boom» anche le cose cambiano. L'Italia ormai si proietta in Europa e le nuove regole del gioco si chiamano internazionalizzazione e globalizzazione. Le frontiere via via si aprono e sono altri gli oggetti materiali che fanno degli italiani nuovi cittadini del mondo. E mentre nuove «cose italiane» invadono regioni vicine e lontane - dove gli stereotipi del nostro Paese erano rimasti fermi a pizze e mandolini - i computer giapponesi, i telefonini scandinavi, le sneakers americane, e tanti altri oggetti rendono il mondo sempre più omogeneo.