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Le fabbriche

All'epoca dell'Unità, l'Italia è un Paese relativamente arretrato rispetto alle grandi potenze industriali europee. Nei decenni successivi prende avvio l'industrializzazione con la nascita di alcuni grandi gruppi industriali come Fiat, Pirelli, Montecatini e altri, rimanendo tuttavia l'Italia una nazione prevalentemente agricola fino alla metà del ventesimo secolo. La grande trasformazione avviene negli anni Cinquanta e Sessanta. Il prepotente sviluppo industriale di quegli anni - e il conseguente innalzamento del livello di vita degli italiani - è uno dei principali fattori di integrazione nazionale, raggiunta attraverso il dispiegarsi del «miracolo economico». La grande fabbrica è inoltre un momento alto di incontro, di trasmissione di saperi, di unificazione culturale e politica dei lavoratori. Con la ristrutturazione capitalistica degli anni Settanta, l'innovazione tecnologica, l'esternalizzazione di molti settori produttivi, finisce il tempo della grande impresa accentrata: alla concentrazione della produzione subentra la sua diffusione e frammentazione territoriale e si attenua il ruolo aggregativo del mondo del lavoro.


 


I primi passi


L'Italia preunitaria vanta un'importante tradizione artigianale e molteplici esperienze manifatturiere proto-industriali, ma al momento dell'unificazione è molto distanziata dai paesi europei industrializzati. Basti un dato: nel 1861, la potenza installata negli opifici italiani è di 50.000 cavalli vapore contro il 1.120.000 della Francia.


 


Il decollo


Nondimeno, tra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento l'Italia compie un vero e proprio decollo industriale, riuscendo a raggiungere posizioni di primo piano in settori strategici: quinto posto al mondo nella produzione di autoveicoli, energia elettrica e cemento; quarto posto per le fibre tessili artificiali; sesto posto per l'acciaio. Emergono in questa fase figure di imprenditori destinati a lasciare un segno nella storia economica e sociale del Paese: da Giovani Battista Pirelli ad Alessandro Rossi e Giovanni Agnelli, da Guido Donegani a Riccardo Gualino e Camillo Olivetti. Ed emergono aziende molto importanti: Fiat, Montecatini, Pirelli, Ansaldo, Snia, Edison, Italcementi, Ilva.


 


La grande crisi e il fascismo


Il settore manifatturiero, ingigantitosi con la prima guerra mondiale, trova difficoltà a riconvertirsi ed è colpito duramente dalla crisi del 1929. In questa fase, sotto l'egida del Fascismo, il rapporto fra Stato e industria si fa molto stretto; con l'IRI (istituito nel 1933) l'Italia diventa nel sistema capitalistico il Paese con la più grande industria di Stato. Nonostante queste acquisizioni, la base produttiva rimane fragile. Negli anni a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia è ancora un Paese prevalentemente contadino, povero, con aree di sviluppo diseguale.


 


Il boom economico


L'Italia entra pienamente nel processo di industrializzazione con tassi di crescita prodigiosi nel ventennio 1951- 1971. I settori trainanti sono quello meccanico e metallurgico, chimico, dei mezzi di trasporto, alimentare, del tessile- abbigliamento, del mobilio, delle calzature. In altri termini, la rivoluzione industriale italiana passa attraverso un'espansione dei consumi di massa, traendo benefici sia dalle esportazioni sia dall'allargamento del mercato interno. L'epicentro di questo fenomeno, definito «miracolo economico», è racchiuso fra il 1958 e il 1963. Questa fase di sviluppo non è tuttavia senza contraddizioni e squilibri, territoriali e sociali. È il Nord-Ovest a richiamare manodopera proveniente dal Nord-Est e dal Mezzogiorno, fissando nel triangolo industriale Torino-Milano- Genova il fulcro della produzione. Politiche di sviluppo industriale al Sud vanno incontro a regolari fallimenti, privilegiando investimenti ad alto contenuto di capitale e scarso impatto sull'occupazione. Si sviluppa nel frattempo un'intensa conflittualità operaia, espressione di una forte richiesta di diritti sociali e di protagonismo politico.


 


Un nuovo modello


Il ciclo successivo è condizionato da problemi interni e dagli andamenti dell'economia internazionale: in particolare in relazione all'aumento del prezzo del petrolio (crisi petrolifera, 1973), fonte energetica cruciale e materia prima fondamentale per molti settori. Ne risentono l'industria chimica e tutto il settore delle partecipazioni statali. Alcune grandi aziende, come la Fiat, riescono a superare la crisi al prezzo di grandi ristrutturazioni organizzative e tecnologiche. Nascono nuovi imprenditori nei settori dei servizi e delle comunicazioni, si consolidano imprese innovative. Si assiste a un processo di industrializzazione diffusa, con la creazione di distretti industriali imperniati su sistemi di piccole e medie imprese, con l'allargamento della geografia produttiva e con primi esempi di delocalizzazione della produzione in altri paesi. È una sorta di nuovo miracolo economico, dominato tuttavia da un vitalismo individuale che subentra alla precedente dimensione di massa, aggregativa e conflittuale. È una metamorfosi in atto, ancora una volta sospesa fra particolarismo e cosmopolitismo, i due antipodi di un antico carattere nazionale.