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Le campagne

Nel XIX secolo il mondo rurale è un universo chiuso, fortemente legato a tradizioni antiche, isolato rispetto al resto del Paese. Un mondo estraneo, se non addirittura ostile, al processo di costruzione dell'unità nazionale. Con la nascita delle prime organizzazioni politiche e sindacali è il conflitto sociale a rompere questo isolamento e a diffondere anche nella classe contadina le nuove idee di equità e giustizia sociale. La Prima Guerra Mondiale, col suo carico di dolore e di morti, rappresenta un momento di forte integrazione. Indossata l'uniforme, gli italiani si incontrano e dentro le trincee sfumano le differenze. Dopo il lungo inverno fascista, l'Italia si trasforma da paese prevalentemente agricolo in un moderno paese industriale. L'Italia è attraversata da grandi ondate migratorie che portano milioni di braccianti nelle fabbriche del Nord. Il contadino si fa operaio. Con la fine del Novecento le campagne italiane conoscono un'ulteriore grande trasformazione, diventando nuovamente dinamiche e competitive grazie a colture specializzate e all'afflusso massiccio di manodopera immigrata, che ne ridisegna la geografia sociale.


 


Dopo l'Unità


Negli anni che vanno dal 1860 al 1876, le campagne italiane sono un mondo in fermento. Rimaste sostanzialmente refrattarie a partecipare al moto risorgimentale, esse vengono coinvolte, nel Mezzogiorno, nel cosiddetto fenomeno del «brigantaggio» (1861-1863). Di altra matrice è la rivolta che segna il conflitto sociale al Nord del Paese, dove, dopo l'entrata in vigore della tassa sul macinato, nel 1868, si diffonde un'ondata di protesta che si prolunga per il tutto il 1869, premessa del movimento di contestazione «La boje», che dal 1882 al 1886 toccherà l'Emilia e il Mantovano. In quella fase, le condizioni di vita miserevoli inducono i contadini a emigrare in massa alla ricerca di migliore fortuna. Col nuovo secolo, le campagne della Pianura Padana sono il terreno di nuovi conflitti mentre si sviluppano leghe di resistenza e organizzazioni politiche che mettono in comunicazione, in forme inedite di solidarietà, città e campagne.


 


Tra guerra e fascismo


Dopo la Prima Guerra Mondiale, i «fanti contadini» scoprono, insieme a un'appartenenza «nazionale», la capacità di essere protagonisti del conflitto sociale. Uno degli effetti più vistosi di questo nuovo atteggiamento è il grande sviluppo delle organizzazioni sindacali: nel 1919 gli iscritti della Federterra (il sindacato socialista) raddoppiano; lo stesso incremento interessa l'organizzazione sindacale cattolica, la CIL (Confederazione italiana dei lavoratori), che raggiunge più di un milione di iscritti, con l'80% di contadini. Quanto agli scioperi, le fonti ufficiali rilevano uno straordinario incremento del loro numero e del numero di partecipanti. Gli echi della promessa che è risuonata nelle trincee, «la terra ai contadini», alimentano una stagione di intensa radicalizzazione che assume un duplice aspetto: da un lato, la scelta di «prendersi la terra» attraverso l'occupazione violenta e illegale dei fondi con la conseguente espropriazione dei vecchi proprietari; dall'altro, la soluzione del tutto pacifica di «comprarsi la terra», con i campi che cambiano proprietario attraverso regolari operazioni di compravendita. Nel primo caso, le occupazioni riguardano soprattutto il Mezzogiorno e sono molto politicizzate, guidate in prevalenza dalle organizzazioni socialiste, cattoliche e di ex combattenti: il decreto firmato dal ministro dell'agricoltura Achille Visocchi (2 settembre 1919) legalizza soltanto le occupazioni di terre incolte. Nel secondo caso si tratta di un processo spontaneo che, tra il 1920 e il 1930, coinvolge più di 500.000 contadini.


 


Le campagne sotto il regime


Per reazione a questa stagione di intensa mobilitazione, si afferma il Fascismo agrario, nato lontano dalle grandi città, nelle periferie agricole della Pianura Padana, intorno a improvvisati capi politico-militari (chiamati «ras» come i signori feudali dell'Etiopia), quali ad esempio Italo Balbo nel ferrarese o Roberto Farinacci a Cremona. Negli anni del Fascismo il regime avvia una profonda trasformazione del mondo agricolo. Una grande campagna di bonifica investe molte aree del Paese, principalmente in Maremma, nel Polesine e nelle Paludi Pontine. A partire dal 1925, Mussolini lancia la Battaglia del grano, tendente a incrementare la produzione di frumento e a raggiungere l'autosufficienza. Quanto alle condizioni materiali dei contadini, si registra un loro generale peggioramento.


 


La democrazia e le riforme


Nel secondo dopoguerra, a una stagione di nuovi movimenti di occupazioni delle terre che coinvolgono le campagne del Mezzogiorno, si risponde con una riforma agraria (1950), che porta al trasferimento di un milione e mezzo di ettari di terra nelle mani di 800.000 nuovi coltivatori diretti, e all'istituzione della Cassa del Mezzogiorno (1950- 1952), allo scopo di finanziare con denaro pubblico strade, acquedotti, linee di elettrificazione e altre opere in grado di avviare un consistente sviluppo industriale anche nel Sud del Paese.


 


La fine di un mondo e le nuove marginalità


Dopo il boom economico, lo spopolamento delle campagne che alimenta l'emigrazione verso le fabbriche del Nord e l'avvento delle macchine nella produzione agricola danno luogo a un'autentica rivoluzione dei sistemi produttivi. Gli addetti al comparto agricolo, attorno al 50% nei primi anni cinquanta, si riducono fino alla cifra residuale del 5% alla fine del Novecento. Negli ultimi anni, le nostre campagne sono divenute inedite mete di immigrazione prevalentemente da Paesi del Nord Africa, scenari di nuovi disagi sociali e di nuovi modi di produzione.